Visita all'isola più bella dell'arcipelago tra balene, tartarughe e uccelli rari. Tra fondali, spiagge, paesaggi sahariani, gli ultimi baobab e i villaggi creoli.
di Teresa Scacchi foto di Eugenio Bersani
Considerata da molti l’isola più bella di Capo Verde, lo è di sicuro per gli amanti di mare, arenili selvaggi e rarità naturalistiche. Negli ultimi anni l'afflusso turistico è aumentato, ma strutture e insediamenti sono ancora pochi, anche se i progetti di nuove costruzioni rischiano di compromettere alcuni tratti di litorale. E il richiamo del benessere prodotto dal turismo ha generato problemi sociali prima sconosciuti.
Scoperta nel 1460, l'isola venne prima battezzata São Cristovão. Si dice che il nome attuale le sia stato attribuito poco dopo, mutuandolo dal grido 'Boa vista!' (Bella Vista) che i marinai portoghesi lanciavano all’apparire di una terra vergine. E, nonostante i suoi bassi fondali e il magnetismo di punta del Morro Negro capace di confondere le bussole abbiano costituito per secoli un pericolo per le imbarcazioni, il nome venne mantenuto. Per due secoli fu dimenticata e solo nel Seicento, quando gli inglesi iniziarono a sfruttare le saline naturali e venne fondato il primo villaggio, l’attuale Povoação Velha, cominciò la vera storia dell'isola. A inizio Ottocento il capoluogo fu spostato a Porto Inglés (oggi Sal Rei) e un forte fu edificato sull’antistante isolotto a protezione del villaggio, che nel frattempo viveva un periodo di relativa prosperità; in quegli anni si sviluppò anche una intensa attività culturale. Le lunghe carestie del Novecento per mancanza di pioggia, aggravate da frequenti invasioni di cavallette provenienti dal Sahel, spinsero molti abitanti a emigrare: negli anni Settanta molte donne vennero in Italia a lavorare come colf; il flusso maggiore fu verso il Portogallo, a Lisbona c'è la maggiore comunità capoverdiana, la meglio integrata tra quelle delle ex colonie lusitane.
Boa Vista è una meta per gli amanti di natura e sport acquatici come windsurf, kitesurf e immersioni. Sui fondali giacciono numerosi relitti, oltre una sessantina, affondati in epoche diverse, perfetti scenari dove addentrarsi per scoprire fauna e flora inconsueti, a metà tra Mediterraneo e mari tropicali. I sub incontrano mansueti squali, tartarughe, mante, aragoste, murene, pesci pappagallo e molte altre varietà. La grande attrazione è il whale watching. Nelle acque tra Capo Verde e il Gambia è stato individuato un ricco santuario delle balene. Tra marzo e fine maggio è possibile avvistare anche a poche miglia dalla riva le megattere (Megaptera novaengliae) che dall'Artico raggiungono queste acque calde dove svezzano i piccoli. La megattera, o balena gobba, misura da 12 a 15 m di lunghezza per 30-38.000 kg di peso, migra periodicamente dai mari polari a quelli tropicali coprendo fino a 14.000 miglia l'anno. Sbuffi, salti e code maestose, silhouette nere e lucide che si infilano tra i flutti è quanto si ammira dalle imbarcazioni che propongono uscite accompagnate da biologi.
Per toccare con mano la ricchezza della fauna marina dell’isola non sempre è necessario andar per mare: la costa nord orientale, una delle meno battute, offre insoliti incontri. Le acque sono ricche di pesce e gli squali raggiungono spesso la riva: dalla battigia è possibile scorgere le loro pinne a pelo d’acqua. Da non perdere inoltre gli itinerari naturalistici alla scoperta di piante e uccelli. L’isolotto di Curral Velho ospita le fregate (Fregata magnificens), splendido pennuto che come richiamo amoroso gonfia il rosso gozzo: comune in Centro America e nell'oceano Indiano, è invece raro in Africa occidentale. Si avvistano anche la cotovia, un passeriforme endemico dell'arcipelago, e il falco pescatore. Sul pennone del relitto di Cabo S. Maria si vede spesso l’aquila di mare. Numerose colonie di candidi fetonti (grandi uccelli marini) nidificano in primavera, e concedono l’emozione di una foto con i piccoli ai più sportivi che si calano lungo le pareti rocciose. Resti di un passato verde e rigoglioso sono i 7, alcuni dicono 9, baobab che s'incontrano in un percorso intorno all’isola. Nell’oasi di Ervatão c’è il più grande baobab (non bastano sei persone intorno per abbracciarlo), testimone del tempo quando ancora l’uomo non aveva calpestato questa terra.
Per esplorare Boa Vista serve un fuori strada e, consigliamo, una guida naturalistica di Naturalia, società nata da un progetto Interegg per lo sviluppo del turismo ecosostenibile. Per i percorsi più brevi si può usare la mountain bike o camminare, sempre però ben protetti dal sole. Bellissime le spiagge che orlano l’isola per un perimetro di 55 km: Santa Monica, 18 kmdi arenile deserto e mare cristallino (ancora per poco perché a Lacaçao, hanno costruito un megahotel e lussuose ville), poi Estoril, Chaves, Varandinha, Curral Velho con la sua magnifica salina rosa. Ed Ervatão, dove c’è la base dei ricercatori impegnati con le tartarughe caretta-caretta, che da giugno a settembre depositano le uova sulle coste dell’isola. Dal 2000 qui è attivo un progetto gestito dall’Università di Las Palmas (Canarie) in collaborazione con il Governo Capoverdiano per studio e conservazione di questi rettili a rischio. Le escursioni per assistere a deposizione e schiusa delle uova sono organizzate in modo da interferire il meno possibile con gli animali, sotto la supervisione dei ricercatori e del team di Naturalia. Ma le caretta-caretta non sono le uniche specie presenti a Boa Vista: tra le dune di Estoril spuntano le testoline delle tartarughe verde e imbricata.
Situato nella parte nord-est di Boa Vista, il capoluogo Sal Rei è un villaggio di case basse in stile coloniale portoghese con le facciate dipinte e gli edifici commerciali del porto vecchio, testimoni di un lontano passato mercantile. Interessante l’Alfandega (antica dogana), trasformata in uno spazio culturale a cielo aperto (nel senso che il tetto non c’è più), è dietro la spiaggia del paese dove giacciono in secca le variopinte barche da pesca e i ragazzi giocano a beach volley, si tuffano in acqua dal pontile e si ritrovano in gruppi. Di fronte è visibile Ilehu de Sal Rei, l’isolotto su cui si trovano le rovine e alcuni cannoni del forte di Bragança, edificato nell’Ottocento per proteggere il villaggio dalle incursioni dei pirati. All’interno vale la pena di fermarsi nei paesini di Rabil, Estancia da Baixo, e poi, verso nord, nei villaggi sonnacchiosi con le case colorate di João Galego, Cabeça de Tarafes e Fundo de Figueiras. Da non perdere il paesaggio di dune che si rincorrono sino al mare del Morro de Areia e lo spettacolo - all’alba, al tramonto o nelle notti di luna piena - del deserto di Viana, un pezzo di Sahara in mezzo all’oceano.
L’impagabile visione del relitto Cabo S. Maria avvolto nella tiepida luce del pomeriggio riporta l’eco delle grandi scoperte geografiche, quando l’arcipelago di Capo Verde era un avamposto per le rotte alla ricerca di nuovi mondi. E rimanda alle tristi epoche dello schiavismo, per spiegare come mai ancor oggi su 100 capoverdiani, 71 sono creoli, 28 africani e solo uno è di origine europea. Il rapporto non è cambiato dal 1800, quando sulle isole vivevano 13 mila schiavi tenuti prigionieri da un pugno di portoghesi. La loro è una discendenza di razze sub africane che furono deportate a Capo Verde in attesa dei terribili trasferimenti oltre Atlantico. La maggior parte dei 400.000 abitanti (almeno il doppio è emigrato a causa di siccità e difficoltà economiche, a cominciare dalla grande carestia del 1864) è di sangue misto di schiavi provenienti dalla Guinea Bissau, negrieri bianchi e tante altre etnie razziate dai mercanti in un territorio che andava dallo Zambia al Senegal passando per l'Africa Centrale. La criolidade che affascina con il suo melange spesso d’ineguagliabile bellezza, e che si rinviene anche nella musica portata al successo da Cesária Évora, è figlia di un passato tragico, da non dimenticare.