Dai Vezo, i nomadi del mare, alla riserva dei lemuri. Un itinerario in fuoristrada nella parte più meridionale dell'isola tra gruppi etnici, parchi nazionali, mercati, tombe decorate e foreste.
Fanno parte del mare come i pesci, le alghe e i coralli. Sono i Vezo, i pescatori nomadi del sud del Madagascar, una tribù di gente dalla pelle nerissima che la leggenda vuole abbia avuto origine dall'unione di un uomo con un essere metà donna e metà pesce. La storia ufficiale non dà invece credito alle sirene e racconta che i Vezo, come altre tribù malgasce, sono giunti nell'isola duemila anni addietro, probabilmente dall'Indonesia, per poi mescolarsi con popolazioni africane. Le laka, le loro piroghe a bilanciere fabbricate con il legno di baobab, spinte tra le onde del canale del Mozambico da vele rattoppate, riprendono infatti linee e tecniche di costruzione delle imbarcazioni di diversi popoli di pescatori erranti del Sud-est Asiatico. L'appellativo di nomadi non deriva però loro da quest'incerta origine, piuttosto dal costume d'inseguire la costa alla ricerca di prede per diversi giorni, trascorrendo la notte su isole e spiagge al riparo delle loro vele quadrate trasformate in tende. Attorno al pesce, su cui è basata la loro economia, ruotano gran parte delle convenzioni sociali e dei tabù che regolano la vita delle 8mila persone che abitano i villaggi Vezo disseminati sulla costa sud-occidentale del Madagascar, tra Morombe e Anakao. La pesca, praticata con il filo e con l'arpione, è limitata ad alcune varietà ittiche, mentre altre sono intoccabili: sono considerate lulu, sacre, sono antenati che vivono nel mare. E anche oggi che molti Vezo pescano con le reti, il bottino viene sempre verificato per evitare di portare a riva e uccidere qualche "parente". Approdati sulla spiaggia, se incontrano un forestiero i Vezo gli regalano un pesce: è auspicio di abbondanza per il futuro. Ma non lo vendono a un estraneo prima di averlo spartito ritualmente con l'intero clan: infrangere questo tabù trasformerebbe il mare in un deserto e sarebbero necessarie infinite cerimonie sacrificali per ritrovare una spedizione feconda.
Lasciato con una piroga a motore il Mangrove, un alberghetto francese incastonato sulla scogliera pochi chilometri a sud di Tulear, incontriamo i primi Vezo a Sarodrano, un villaggio di capanne di legno sparse su di una penisola formata da dune di sabbia bianca proiettata nel mare. Una piroga segue la costa per vendere legname: da ogni casa arriva a comprare le fascine una donna con il viso coperto da una pasta di corallo, usata per proteggersi dai raggi del sole. Sulla spiaggia alcuni uomini cuciono le reti. All'orizzonte cinque donne tornano dal pozzo portando sulla testa secchi di altrettanti colori. Continuiamo a seguire la costa tra scogliere calcaree su cui si aprono grotte popolate di cormorani, fino alla foce del fiume Fitherenana affollata di piroghe a vela dei pescatori. É la baia di Saint Agustin, uno dei più antichi insediamenti bianchi in Madagascar, le prime navi europee vi approdarono nel 1515, il secolo successivo gli inglesi tentarono di porre una base stabile ma furono decimati dalla malaria, seguirono i velieri corsari in fuga dai Caraibi e infine i mercanti francesi che s'installarono sull'isola di Nosy Ve, più salubre e più facilmente difendibile dall'aggressività delle tribù locali. Nosy Ve, punto di riferimento dei pescatori Vezo, significa "l'isola dove si svolta": la si raggiunge navigando per un'ora in mare aperto. É un sogno tropicale, un'isola rocciosa estesa per poco più di un chilometro con lunghe lingue di sabbia immacolata proiettate nella laguna blu, da cui emergono coralli di ogni forma e colore. Ripreso il mare in mezz'ora si raggiunge Anakao, sulla costa, il maggiore villaggio Vezo a sud di Tulear: una spiaggia infinita costeggiata per due chilometri dalle capanne e dalle piroghe dei pescatori, che tra la sabbia piegano le reti, scaricano il pesce, riparano le imbarcazioni.
Chi non vuole navigare i Vezo li può incontrare a Ifaty, un villaggio situato un'ora a nord di Tulear seguendo in fuoristrada un'accidentata pista sabbiosa che attraversa grappoli di capanne costruite all'ombra di manghi, tamarindi, baobab e ficus baniani, per poi costeggiare paludi punteggiate di mangrovie verdi. Su di una bella spiaggia, a ridosso dell'abitato indigeno, si trova il Lakana Vezo, un complesso di bungalow dove si può assistere al ritorno dalla pesca senza rinunciare al comfort.
Tulear, la base di partenza per esplorare il sud del Paese, è una città d'impostazione coloniale che sonnecchia a cavallo del Tropico del Capricorno: fu creata dai francesi alla fine dell'Ottocento. Le sue strade geometriche con le case color pesca fanno a pugni con le tinte accese e gli odori pungenti dei suoi mercati. I portici angusti della sua via commerciale, popolata di polverosi empori gestiti da indiani e da improbabili gioiellerie, cedono ai grandi viali colorati di rosso dai fiori dei flamboyant, profumati dagli alberi del mango e del tamarindo e percorsi dai pous-pous, i rickshaw tirati da uomini che corrono a piedi nudi sull'asfalto martoriato dal sole. Così se alcuni elementi danno a Tulear un volto asiatico, altri l'ancorano alla miseria profonda del Continente Nero. Il Madagascar è un vulcano che erutta continuamente problemi sociali ed etnici. Un Paese che ha inseguito le più fantasiose utopie politiche, ma non ha saputo attrezzare le sue genti nemmeno della tecnologia della bicicletta. Lasciata la costa, con la sua popolazione ispirata e nutrita dal mare, è un quadro desolante quello che accoglie il viaggiatore nell'interno del Paese: villaggi di baracche e capanne di legno e paglia, gente mite ma stracciata e seminuda che vive producendo carbone fossile e si sostenta a riso e radici di manioca.
Imboccata la strada per Antananarivo si segue per tre ore una striscia d'asfalto che taglia il bush, una distesa di terra rossa coperta da radi cespugli, da piante grasse e spinose e da isolati baobab che s'innalzano come maestose sentinelle. La monotonia del paesaggio è spezzata all'improvviso dall'apparire dei contrafforti dell'Isalo. Un massiccio roviniforme, largo 15 km e tagliato per 60 da questa strada. Un paesaggio lunare di rocce calcaree miste ad altre basaltiche: coni, picchi, pinnacoli, tavolati, panettoni e sfilze di pietre a forma di fungo. A prima vista ricorda la Cappadocia (Turchia), ma addentrandosi in fuoristrada per poi seguire a piedi le sue inquietanti valli si scoprono lussureggianti oasi tropicali in mezzo a un deserto di pietra. Come alla piscina naturale, raggiunta in un'ora di facile trekking, uno stagno circondato da rocce foderate di felci e pandani in cui malgasci e turisti si tuffano per trovare refrigerio al clima torrido dell'altopiano. O il Canyon delle Scimmie, una stretta e profonda gola disegnata da un fiume e soffocata di vegetazione: vi si arriva camminando per mezz'ora tra risaie e boschi di manghi. Il vicino villaggio di Ranohira offre soluzioni spartane ma accettabili di vitto e alloggio, in quest'area remota nel 1993 è stato però costruito il Relais de la Rheine, uno châlet in pietra appartato discretamente tra le montagne per non alterare il paesaggio: un'isola di comfort e buona cucina.
Per esplorare il sud del Paese bisogna ritornare verso Tulear fino al polveroso villaggio di Andranovory, al bivio con la strada che porta a Fort Dauphin, sull'Oceano Indiano. Da qui si abbandona l'asfalto per un lungo viaggio attraverso una pianura nuda e spinosa su di una pista stretta e accidentata dove si sobbalza tra buche e deviazioni. Si attraversano villaggi che non offrono nessun appoggio logistico, fino ad Ampanihy, dove l'hotel Le Relais dà la possibilità di una spartana tappa notturna. Passata Ampanihy, monumentali tombe decorate con aloalo (pali di legno intagliato), pitture murali multicolori e corna di zebù annunciano che siamo entrati nella regione della tribù dei Mahafaly: gli uomini che creano i fady, cioè i tabù. I Mahafaly, come altre popolazioni dell'estremo sud del Madagascar, vivono in primitive capanne di legno ma investono tutta l'energia e la ricchezza che possiedono per costruire maestose tombe di pietra, in cui i defunti vengono sepolti diversi giorni dopo il decesso, quando il corpo inizia a decomporsi accompagnato da infiniti e rumorosi pianti collettivi. La morte per questa gente appare più importante della vita: è la liberazione da una terra aspra e avara. Molte tombe recano affreschi e sculture di notevole valore artistico, bisogna però avvicinarsi prudentemente, non toccarle, non fotografarle in presenza di locali e non compiere azioni che possano violare i fady, come urinare o mangiare nei dintorni di una tomba: altrimenti si rischiano imprevedibili reazioni da parte dei Mahafaly, che come minimo richiedono un riscatto in zebù per ricostituire il tabù infranto.
Si raggiunge quindi Tsihombe, un piccolo villaggio con i resti fatiscenti di un bell'edificio coloniale e alcuni piccoli ristoranti: da qui partono le piste per Cap Sainte Marie e per Faux Cap, i promontori che dividono l'Oceano Indiano dal canale del Mozambico. Cap Sainte Marie è il più spettacolare, con scogliere a picco sul mare: la zona però è protetta perchè vi nidificano le tartarughe Testudo radiata, per visitarla bisogna chiedere il permesso ad Antananarivo. Si raggiunge più facilmente Faux Cap per vedere il Madagascar finire tra dune di sabbia e lunghe spiagge popolate di zebù che vanno ad abbeverarsi in pozzi d'acqua salmastra. Tornati sulla pista principale, s'incontrano numerose tombe, fino a Ambovombe, una cittadina dove il lunedì si svolge un grande mercato. Centinaia di contadini lo raggiungono a piedi dai villaggi della regione formando lunghe file colorate sulla strada. É una fiera prevalentemente agricola in cui si vendono cereali, ortaggi, frutta, olii, spezie, sale e arnesi per il lavoro dei campi. Ai rari turisti vengono offerte stuoie disegnate, coltelli e accette lavorate. Gli unici pezzi interessanti sono i braccialetti d'argento Mahafaly: sono pesanti con motivi incisi nel metallo, ma viene richiesto un prezzo esorbitante, anche maggiore di quel che li si potrebbe pagare in Europa. É un tentativo di scucire soldi al bianco ricco, ma non solo: per i locali questi monili sono pezzi da investimento, una sorta di riserva aurifera in una regione in cui la povertà è palpabile in ogni istante. Poco fuori Ambovombe s'incontra il mercato del bestiame. Una moltitudine di uomini avvolti in mantelli screziati, con il capo coperto da cappelli di paglia, i piedi nudi e il corpo appoggiato a lance contrattano tra loro centinaia di zebù all'ombra di spinosi cactus.
Proseguendo a oriente la pista di terra rossa corre in mezzo al grigioverde delle piantagioni di agavi, da cui si ricava il sisal, una fibra utile alla fabbricazione di sacchi, cordami e tessuti industriali. Questa varietà di agave, diventata una monocultura che ha mutato drasticamente il paesaggio del sud del Paese, è stata introdotta nel secolo scorso dal Perù dalla famiglia De Haulme, una dinastia di colonialisti francesi presenti in Madagascar fin dal Seicento. Oltre che delle piantagioni, i De Haulme sono proprietari di una catena di alberghi di livello occidentale che hanno permesso lo sviluppo del turismo nella regione tra Tulear e Fort Dauphin. Come il lodge della riserva di Berenty, dove arriviamo dopo un percorso attraverso il deserto spinoso. Berenty con la sua foresta è uno dei parchi più famosi del Madagascar, quello in cui è più facile avvistare e fotografare i lemuri catta (con la lunga coda zebrata) e sufaka (quelli bianchi che saltano in posizione eretta) e vi si incontrano anche le varietà marrone e notturno. É un parco un po' waltdisneyano con i lemuri bianchi che all'ora di colazione si esibiscono di fronte alla caffetteria lanciandosi da un albero all'altro. E i catta che saltano tra i tetti e i giardini dei bungalow alla ricerca di cestini da picnic, come per imitare l'orso Yoghi.
Sulla strada tra Ambovombe e Fort Dauphin il traffico si fa più intenso: sono soprattutto taxi-brousse, furgonati Peugeot capaci di caricare anche venti persone, che schivano carri tirati da una coppia di zebù, il più comune mezzo di trasporto della regione. Da Berenty a Fort Dauphin, sobbalzando su resti d'asfalto scavato in profondità dalle piogge, si attraversano alcuni malandati ponti in ferro arrugginito: costruiti dai francesi negli anni Cinquanta, sono stati riparati maldestramente con assi di legno. Per poi addentrarsi nella foresta spinosa: una distesa di vertiginose didieracee con bracci tentacolari, euforbie alte fino a sei metri con lattice velenoso, cactus, fichi d'India e un'infinita varietà di piante grasse endemiche che circondano solitari e torreggianti baobab. I rari villaggi sono ancora più poveri che nel resto del Paese: palizzate costruite con le assi ricavate dal tronco legnoso delle didieracee circondato cappannucce piccole come tende canadesi fatte dello stesso materiale. Avvicinandosi a Fort Dauphin il paesaggio è movimentato da colline e colorato da risaie e campi di patate dolci. Dopo giorni di desolazione s'incontra un lembo di Madagascar lussureggiante, quello che si può ammirare tra i laghi, le paludi, le foreste, i prati e gli arenili della vicina penisola di Lokaro. Ma entrando a Fort Dauphin, il più antico insediamento europeo in Madagascar, si respira un'aria di decadenza. Qui dove i portoghesi sbarcarono nel 1504 e costruirono una fortezza, per essere soppiantati dai mercanti di pellami francesi nel secolo successivo, oggi ci sono un paio di alberghi per turisti e l'antica casa privata dei De Haulme per il resto è una bidonville con strade fangose. E nel porto, a ridosso della lunga e bellissima spiaggia di sabbia bianca che avvolge la baia, si trovano i relitti di tre navi sorvegliati dalla costa da altrettanti grandi serbatoi fuori uso completamente arrugginiti. Fort Dauphin è la fine del mondo.
Il Madagascar è una meta naturalistica di primo piano. Milioni di anni di isolamento dal continente africano uniti all'assenza di grandi predatori e dell'uomo (arrivato appena 2mila anni fa) hanno permesso l'evoluzione botanica e faunistica come in un mondo a parte. Sono endemiche, cioè originarie ed esclusive dell'isola, l'80% delle piante, quasi tutti i mammiferi, la metà delle specie di uccelli e il 97% delle varietà di rettili e anfibi. É la terra del maestoso baobab: la gigantesca pianta africana che nell'isola è presente in sette varietà (contro una sola nel continente) e raggiunge i 35 metri d'altezza del tipo Adansonia madagascariensis. Ma è anche il Paese delle spinose didieracee, piante grasse con braccia tentacolari che si librano nel cielo. E delle euforbie, piante senza foglie presenti in 65 varietà: i veleni contenuti nei loro tronchi sono la materia prima dei rimedi medici propinati da secoli dagli stregoni malgasci., scrive Gerald Durrell. Presente in 53 specie, questo rettile è diventato il simbolo del Madagascar insieme ai lemuri, le proscimmie dal muso appuntito e le zampe anteriori più corte delle posteriori. Mammiferi dall'aspetto umanoide (hanno un posizione semieretta) presenti in tutta l'isola in una dozzina di specie. Il bestiario locale comprende il Crocodylus nicotilus: lo si avvista nelle paludi attorno a Fort Dauphin. E lo schiocco simile a un bacio che fa da sottofondo alla savana è il verso del geco, presente in 63 varietà. E ben 57 sono quelle di serpenti, tra cui il famoso boa del Madagascar che raggiunge i 4 metri di lunghezza, nessuna paura invece per le specie velenose, hanno i denti in posizione non pericolosa per l'uomo. Manguste e gatti selvatici formano l'intera gamma dei predatori insieme alla fosa (Cryptoprocta ferox), il maggiore carnivoro locale, una sorta di faina rubagalline. Il censimento del cielo ha registrato 250 specie di uccelli, 300 di farfalle e 28 di pipistrelli. I pesci condividono il mare con 6 varietà di tartarughe: le si vede facilmente nelle acque attorno a Tulear.
Ogni anno, il 12 agosto, puntuali come un orologio svizzero, al largo di Anakao passano le balene in viaggio dall'emisfero boreale verso l'Antartide: un mistero del Madagascar a cui la scienza non sa dare spiegazioni. Il luogo migliore per il whale watching è l'isola di Sainte Marie, sitata a pochi km dalla costa orientale. Da qui - tra giugno e ottobre, nella stagione degli amori, quando le megattere raggiungono dall'Antartide le calde acque del Madagascar per accopiarsi e dare alla luce i piccoli - partono spedizioni che inseguono gli alti spruzzi delle balene gobbe.
Lunghe spiagge di sabbia bianca fissate dalle palme da cocco e colorate da una profusione di fiori. Balene che transitano a pochi minuti di barca dalla riva. Foreste pluviali in cui il gioco di centinaia di piante tropicali e l’intreccio delle liane è vivacizzato da numerose specie di orchidee che crescono solo qui. Il profumo dolciastro delle piantagioni di chiodi di garofano che aleggia nell’intera isola. E un cimitero dei pirati dove rievocare leggende di naufragi e arrembaggi. Ecco cosa offre Sainte Marie, un’isola giardino larga 5 km che s’allunga per 60 km parallelamente alla costa nord-orientale del Madagascar. Le numerose spiagge, di origine corallina, si trovano tutte sulla costa occidentale: la più protetta, separata dal Madagascar da un braccio di mare largo 20 km. La piovosa costa est è invece adatta a chi ama i trekking. E ad Ambodifotatra, il principale villaggio dell’isola, si va per cercare le atmosfere del porto coloniale (un tempo era una base della Compagnia delle Indie), per passeggiare tra le case creole di legno colorato e cercare le suggestioni del cimitero dei pirati. Oltre ai fondali corallini popolati di pesci multicolori, a Sainte Marie s’incontrano megattere e balene blu che dall’Antartide risalgono l’oceano indiano: spedizioni di whalewatching con barche e aerei vengono organizzate da giugno a ottobre. Nelle sue acque s’avvista facilmente anche il dugongo, la vacca di mare. L’isola è sconsigliata tra gennaio e marzo, quando il clima è torrido, le piogge frequenti e può essere anche flagellata dai cicloni. Il resto dell’anno il clima è mite e rinfrescato dai venti: le temperature non superano i 30°C.