TREKKING SUL BRENTA PER IL PROGETTO UNESCO

Diario di trekking dell'ideatore dei Grandi sentieri delle Dolomiti Unesco. Un'iniziativa di turismo consapevole e attivo tra le montagne più spettacolari della Penisola.

testo e foto di Alessandro Cristofoletti *

Il Progetto "Grandi sentieri delle Dolomiti Unesco" disegna, percorre, documenta e comunica nove itinerari emblematici, uno per ciascun sistema dolomitico. Il primo di questi grandi percorsi realizzati è il Brenta Trek Expert, sul Gruppo del Brenta. Il sentiero di 120 km è ad anello, con delle varianti, ed esplora sia le zone più rinomate e battute come la Val Brenta, sia quelle più selvagge come il sottogruppo settentrionale.  Da secoli terreno di conquista per alpinisti e arrampicatori, patria di popoli d'alta quota e luogo di scontro durante il primo conflitto mondiale (molti sono ancora i camminamenti, le trincee e le gallerie di quel periodo), le Dolomiti sono state inserite nel 2009 l'Unesco nella lista dei luoghi Patrimonio dell'Umanità per la loro eccezionalità geologica e paesaggistica.


DIARIO DEL PRIMO GIORNO DI TREKKING

Alle 5 e mezzo la sveglia rock sul telefono di Efrem ci desta immediatamente. Siamo febbricitanti e già proiettati verso l’inizio di questo viaggio a piedi. Dietro ogni sasso, dietro ogni albero, sono nascoste delle storie, che parlano di come la natura è cambiata nel corso dei millenni, assestandosi fra glaciazioni e terremoti, fino ad oggi. Parla di uomini di un tempo con barbe lunghe e antichi strumenti agricoli di legno e di ferro, di un presente in cui la tecnologia è un mezzo e non un fine. Saltiamo fuori dal letto, salutiamo calorosamente Rinaldo con un arrivederci e siamo già sul sentiero.

All’inizio la strada forestale fa il giro al Peller, costeggiando il fianco del monte. In breve siamo alla Clesera, le vacche sono appena partite per il pascolo, e dentro la malga il malgaro sta rompendo la cagliata nel grande paiolo. L’odore del latte riscaldato sul fuoco di legno d’abete, mescolato a quello del formaggio fresco ci fanno tornare fame. Chiediamo alla malgara di tagliarci un pezzo di nostrano da portare con noi durante il viaggio. Stasera sarà la nostra cena al bivacco Costanzi.

Proseguiamo inoltrandoci in un lariceto, dove incontriamo la mandria che bruca tra le fronde dei rami. La giornata si preannuncia molto calda e dopo questo boschetto non ci sarà più nemmeno un albero a farci ombra. Tuttavia, sopra i 2000 metri, una sottile brezza non manca quasi mai e, come una mano fresca, ci stempera piacevolmente le fronti sudate.

Di lì a poco siamo in cima al passo della Forcola. Come varcassimo la soglia di un grande salone, ci si spalanca davanti il Pian della Nana. Si fatica a rendere giustizia alla vastità di questo luogo con una descrizione o una fotografia. Improvvisamente siamo catapultati nelle lande erbose della Scozia, o sugli altipiani Mongoli. Ma è Trentino questo, e ci offre uno spettacolo del tutto inatteso. L’occhio spazia per chilometri e chilometri di praterie senza incontrare ostacoli se non quelli di monti lontani che salgono improvvisamente. Peller, Palon, Cesta, Nana, Sasso Rosso, Cima Uomo, Cima dell’Omet, Pale della Valina e Castellazzo sono i nomi delle nove cime, dei nove silenziosi guardiani che circondano e custodiscono questo recondito eden al riparo dallo sguardo indiscreto del mondo. Gli animali pasturano bradi a cercare l’erba più tenera in una mescolanza di vacche, pecore, capre, cavalli e asini. L’impronta umana più evidente è il lungo tetto splendente di Malga Tassulla, il ricovero di tutti gli armenti che pascolano sotto di noi.

Scendiamo fra il tintinnìo variopinto dei campanacci e il fischio delle marmotte, che si alzano come soldati tracagnotti impettiti al nostro passaggio. Prendiamo a salire verso destra, verso la Selletta della Nana e, innalzandoci sulla costa del monte, ci lasciamo al di sotto le ultime propaggini del Pian de la Nana, solcato in questo punto da profonde forre carsiche: buchi che potrebbero ospitare una casa, alcuni profondi anche 50 metri.

Dalla selletta vediamo il bivacco. È piccolo e di color cioccolato, lontano, sotto di noi. Da qui assomiglia a un neo di bellezza sul volto serico del terrazzo erboso del Prà Castron. È un vero e proprio poggiolo perché poco oltre, sui tre lati, cadono precipizi di 600 metri verso la Val di Sole. Solo a oriente l’orizzonte è sovrastato dalla mole rotonda del Sasso Rosso. Solo nuvole e silenzio sul nostro loggiato a ponente. Stasera ci sarà un bel tramonto.

Dopo esserci insediati nella casupola bruna e riempite le taniche con l’acqua fresca, raccolta da una fonte poco distante, ci rifocilliamo con lo schüttelbrot, il pane di segala altoatesino adatto per viaggiare in montagna, lo speck del Rinaldo e il formaggio della Clesera. Efrem si sdraia a torso nudo a prendere un po’ di sole fra i sassi che spuntano nel prato, bianchi e splendenti come ossa nel deserto. Io mi muovo nel bivacco, esplorandolo. Da fuori sembra più piccolo di quanto appaia all’interno. Ci sono due letti a castello a tre piani e un soppalco che contiene altri giacigli. Le coperte sono ordinatamente piegate in fondo ai letti. Un bivacco non offre né più né meno di ciò che con tutta semplicità mostra appena si entra: per essere chiari, il solo essenziale. E questo è il suo compito, in fondo: fare da lumicino nelle notti di tempesta, da riparo campale e di fortuna nelle condizioni meteorologiche peggiori in cui un viandante può incappare. Ma può far anche da oasi fresca e semioscura in una giornata torrida come questa. Di più non serve. Qui gli orpelli della società consumistica faticano a entrare perché non sono necessari, o, se ci entrano, lo fanno in punta di piedi, amalgamandosi con la miscellanea di oggetti che si trovano qui e là, ma sempre rimanendo in numero limitato: ogni cosa che entra da quella porta, la si porta su a spalle. E le confezioni colorate di arcinote marche di pasta o di fagioli, stipate assieme ai mozziconi di candela e agli accendini vuoti sull’unico scaffale in fondo, ai miei occhi ripuliti temporaneamente dall’asfalto e dalle luci al neon, sembrano provenire da un altro mondo.

Sulla parete di destra, entrando, sono affisse testimonianze di pernottamenti recenti e remoti e le semplici indicazioni per raggiungere la sorgente. Ci sono anche delle fotografie a colori sbiadite. Una ritrae il giovane Claudio Albasini Costanzi, morto in un incidente in montagna. A lui è dedicato il bivacco, costruito nel 1985 dalla Sat di Dimaro.

Verso sera, quando calano le luci, Efrem e io realizziamo per la prima volta di essere completamente soli nel raggio di chilometri. Di lì a poco, come se la montagna avesse inteso il nostro stato d’animo e ci volesse venire incontro, vediamo sbucare da dietro i massi detritici del passo di Prà Castròn, quattro minutissime figure che scendono lungo il sentiero che percorre la linea di separazione fra le rocce bianche di Cima Benon e quelle rosse del Sasso Rosso. I due davanti avanzano spediti e col passo sicuro. I due nelle retrovie, riusciamo a intuirlo anche da qui, sono caracollanti, stanchi, sfiniti. Al loro arrivo li accogliamo calorosamente. Sono quattro polacchi guidati da una donna sulla cinquantina. Due di loro, quelli che si sono attardati, non erano mai saliti su una montagna prima d’oggi. I loro volti stravolti dalla fatica e dalla tensione nervosa si assomigliano. Indovino che siano padre e figlio. In inglese ci raccontano le peripezie che hanno affrontato prima sul sentiero Vidi, che parte dal rifugio Stoppani, e poi sul sentiero Costanzi. Il percorso attrezzato, molto lungo e non certo privo di difficoltà, specialmente per un neofita, percorre l’intera cresta del Brenta settentrionale. “Sarebbe stato bellissimo” ci racconta Paul, il padre “non fosse stato per la nostra scarsa esperienza.”  Raccomandiamo loro di essere più prudenti la prossima volta. Prendere sottogamba la montagna vuol dir giocare a dadi con un avversario troppo forte e imprevedibile, specialmente se non si conoscono le regole. “Passerà un bel po’ di tempo prima che si ritorni sulle montagne. Anche se” si volta a guardare il cielo blu e giallo dietro la grande mole della Presanella, che di fronte a noi, dall’altro lato della valle, annerisce minuto dopo minuto “tutto questo in Polonia ce lo sogniamo.” Quando fa buio pesto, con la luce frontale facciamo gli zaini per l’indomani e salutiamo i polacchi. Partiremo molto prima di loro, verso le 5, prima dell’alba. Domani le previsioni danno acqua e temporali dalla tarda mattinata e la tappa fino al Graffer sarà lunga.

COME SI SONO FORMATE LE DOLOMITI       

Il gruppo delle Dolomiti abbraccia un territorio che va dal Friuli al Trentino, nel cuore dell'arco alpino. Le Dolomiti sono riconosciute come montagne uniche al mondo per la forma e i colori che possiedono. Questa eccezionalità è strettamente legata alla composizione chimica della Dolomia, la roccia di cui sono composte e alla storia della loro formazione (orogenesi).  Circa 220 milioni di anni fa, nel Triassico superiore, si sono creati dei depositi di sedimenti trasportati dall'acqua su un fondale marino poco profondo. Alcuni milioni di anni dopo, acque marine calde ricche di magnesio hanno comportato la trasformazione della roccia da calcare a Dolomia. Da un punto di vista chimico si è passati da un carbonato di calcio a un carbonato doppio di calcio e magnesio. Lentamente questi sottili piani di deposito di vario spessore si sono accumulati gli uni sugli altri (da qui deriva il caratteristico aspetto a strati), fino a che i movimenti tettonici non li hanno innalzati dal livello del mare fino quote di oltre 3000 metri. Solo il tempo, grazie al lento disfacimento di questi colossi, ha permesso alle Dolomiti di raggiungere l'attuale conformazione, famosa per la verticalità delle sue pareti e l'apparente sfida alla gravità delle sue esili guglie.

* Alessandro Cristofoletti è ideatore e responsabile del progetto  Grandi sentieri delle Dolomiti dell'Unesco e autore con Efrem Ferrari di I grandi sentieri delle Dolomiti - Il Brenta, diario di viaggio, guida e libro multimediale all’insegna del turismo consapevole e attivo. Un lavoro composto di tracce gps, video, fotografie e un reportage di viaggio in cui hanno raccolto storie, esperienze e vita vissuta dei veri protagonisti della montagna, le persone che ci vivono e ci lavorano.

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